Esserci, febbraio 1995

 

Ricordi da… gridare

Il 5 febbraio abbiamo celebrato la “Giornata per la vita” mentre l’11 febbraio la “Giornata dell’ammalato”.

Sono date che, a scadenza annuale, ci ricordano qualcosa. Ma io mi domando: “Perché ricordare?”. Ci si ricorda qualcosa quando – quella cosa –  è trascurata oppure dimenticata. E mi chiedo ancora: “Possibile che la vita sia dimenticata oppure che l’ammalato sia trascurato?”.

Leggendo la cronaca di questi ultimi giorni sembra che sia così… bambini appena nati abbandonati a morire sui cornicioni dei palazzi oppure buttati tra i rifiuti… manipolazioni genetiche al di fuori di ogni controllo etico… malati terminali lasciati morire in carcere… anziani soli e abbandonati…

Tante domande mi assalgono nella mente e la più assillante è questa: “Perché accade tutto questo?”. Non riesco a trovare una risposta che possa acquietare il mio spirito, ma so soltanto che noi cristiani abbiamo un compito arduo.

Non siamo chiamati solo a celebrare la Giornata per la vita e la Giornata dell’ammalato, ma siamo chiamati a GRIDARE che la vita è una realtà sacra, e che il dolore, alla vita intimamente legato, può essere alleviato con la solidarietà.

Ben vengano queste giornate che ci ricordano, ma non fermiamoci solo a ricordare, gridiamo forte quei valori che questo nostro mondo vuole rimuovere.

don Franco

 

La sofferenza di Dio

DIO E’ AMORE (1 Gv 4.8), questa l’affermazione che Giovanni fa di Dio nella sua prima lettera: eppure, non di rado, tale attributo di Dio suscita interrogativi:

-Come può Colui che è Amore permettere le guerre?

-Come può desiderare di vagliare con la morte l’armonia di una coppia di giovani?

-Dov’è Dio quando la sofferenza dal midollo delle ossa attraversa il corpo per uscire dai pori della pelle?

-Perché gira lo sguardo quando si consuma nella morte solitaria l’esistenza di un uomo abbandonato ai bordi del Metrò?

Questi e tanti altri interrogativi fanno seguito a quello antico rivolto da Pilato a Gesù: “Sei tu il re dei Giudei?” (Gv 18,33), un interrogativo mai concluso, eppure Giovanni dirà che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Suo Figlio Unigenito” (Gv 2,16) e, avendolo dato nella sofferenza, si è reso solidale con gli uomini proprio nel momento della prova non sottraendosi, con la sua onnipotenza, al sacrificio del dolore e lo ha fatto spontaneamente e liberamente, fino in fondo, non lasciandosi sedurre dalla tentazione di scendere dalla croce, perché il compimento della sua opera sarà nelle sue parole: “Tutto è compiuto” (Gv 19.30).

L’uomo non è stato capace di uccidere Dio, né buttandolo giù dal burrone dopo l’autorivelazione a Nazareth, né seducendo in punto di morte l’Unigenito, perché Dio è più grande del dolore e della morte.

Per questo Dio è sempre dalla parte dei sofferenti e lo dimostra il Suo sacrificio libero, dal quale poteva sottrarsi, mentre noi dal nostro non possiamo; e se ha lasciato l’altra parte della croce libera è perché vuole continuare la Sua solidarietà con coloro che accettano di stare con Lui sullo stesso legno, per rendere il proprio un sacrificio di comunione gradito a Dio.

LA SOFFERENZA NON è UN DONO OFFERTO DA DIO AGLI UOMINI, ma il risultato di una non comprensione di Dio, abbandonato dall’uomo.

Era sì presente nella creazione, ma esterna all’uomo, il quale sapeva che ne avrebbe fatto esperienza, come conseguenza di un atto di disubbidienza. E così è stato.

Ma Dio, dopo aver rivestito di pelli la nudità del corpo, si è preoccupare di rivestire di speranza la nudità della nostra anima e, facendo leva sull’amore, ha convocato l’umanità intera al tavolo della solidarietà.

Per questo, quando ci verrà offerto l’aceto della sofferenza, pensiamo al vino delle nozze di cui sarà bandita la tavola del RE  che ha un posto preparato anche per me.

don Mario, diacono

 

Il valore della vita

Quanto vale oggi la vita di un uomo? Vien proprio da chiederselo, dopo l’ennesimo atto di violenza legato al calcio. Pare che il povero padre di quel ragazzo sfortunato non abbia avuto reazioni scomposte, eppure comprensibili, ma si sia chiesto soltanto se fosse giusto morire per vedere una partita.

Ma qui non c’entra la passione sportiva. Non è la rabbia per una sconfitta, per un gol sbagliato, per un errore arbitrale. Che comunque non giustificano aggressioni o vandalismi. E’ violenza per la violenza. Si va allo stadio armati e, prima ancora che si giochi, si colpisce senza pietà alcuna. Senza alcun rispetto per la vita umana.

Ora, sull’onda dell’emozione, ne parliamo un po’ di più, ma sappiamo bene che è storia di ogni domenica. Eppure c’è chi ancora cerca di non vedere, di minimizzare. Liquidando tutto con la solita ipocrisia, manifestando dolore e sdegno. Perché ormai, soprattutto nel calcio, poco resta di sportivo: è tutto un grosso affare. Ed il tifo non riesce più nemmeno ad incanalare e sublimare le tensioni della vita quotidiana: il lavoro, la casa, le tante incertezze per un domani  che ci appare sempre più confuso e precario.

E mentre manifestiamo per la pace tra i popoli, facendoci paladini delle altrui libertà, ogni giorno è guerra nelle nostre strade, Teppismo, arroganza e rissosità sembrano le nuove qualità di distinzione. Ogni giorno danni di ogni tipo: dal cassonetto incendiato all’albero spezzato, dai muri imbrattati di vernice pseudoideologica alle suppellettili rotte nelle scuole occupate, dai giochi dei giardini distrutti alle auto incendiate. Ed il numero dei baby delinquenti è sempre maggiore.

Ma non ce la prendiamo, come spesso accade, con la televisione. Non facciamo filosofia parlando di problematiche a valenza mondiale, non usciamo con le solite percentuali e statistiche. Chiediamoci, invece, quante colpe abbiano istituzioni come la famiglia e la scuola. Quanto siano venute a mancare nella loro insostituibile opera di educazione. Per non parlare dei valori: il discorso ci porterebbe troppo lontano. E pensiamo ai cattivi maestri, e tra essi un posto in prima fila spetta ai nostri politici che sono tra i primi a dare il cattivo esempio, con l’esasperata litigiosità che sta caratterizzando questi anni difficili.

Giuseppe Gragnaniello

 

Carpe diem? No grazie!

Ed ecco, ci risiamo! Da un po’ di giorni abbiamo celebrato la giornata della vita ed abbiamo iniziato a dar voce alle nostre coscienze che non tarderanno a farci riflettere sul valore che noi diamo alle nostre vite e inizieremo a pensare a tutte quelle vite uccise ancor prima di nascere, tutti quei neonati che non hanno avuto neanche una culla di paglia, ma un cassonetto come lo prima culla; penseremo a quelle persone che ogni giorno muoiono per violenze o per guerre… in questi giorni di profonde riflessioni sul tema della vita, tutti potremmo cadere nell’immenso abisso di vergogna e di timore, ma questo nostro stato di colpevolezza avrà fine ancor prima che abbia inizio; sì probabilmente lunedì 6 febbraio già avremo dimenticato tutto ed inizieremo ad ascoltare nuovamente la canzone del nostro magnanimo Vasco Rossi “Vivere è un po’ come perder tempo, è come un comandamento…” E’ terribile, ma vero: condividiamo le idee del nostro amato cantante e mutiamo il significato del verbo vivere in quello di sopravvivere. Ormai si vive perché si deve vivere, si vive anche se si è morti dentro, e nessuno cerca di vivere intensamente o di dar senso alla propria vita. Sarebbe persino ridicolo ricordare che la vita deve essere vissuta all’insegna di Dio. Chi di noi la sera, quando va a letto, ringrazia Dio per la giornata che ha vissuto intensamente? Quasi nessuno penso, anzi, rimproveriamo forse Dio perché ci ha fatto vivere. E’ inaudito, ma oggi si vive alla giornata, senza pensare al domani ed ecco perché vorrei contestare il caro poeta Orazio, quando affermava di dover vivere intensamente nel momento presente. “Carpe diem”: Queste parole hanno invaso i nostri zaini, i nostri diari e soprattutto la nostra mente. Purtroppo non siamo ancora riusciti a capire che la vita deve essere vissuta… Finiamola con i sensi di colpa momentanei, la Giornata della vita non è celebrata solo il 5 febbraio, ma anche in tutti i giorni restanti dell’anno, Basta con i discorsi ipocriti che facciamo sul valore della vita, quando poi non si è certi neanche della propria. Per dare un senso all nostra vita bisogna solo accostarsi a Dio. So che per noi è difficile scegliere Dio dando tutto di noi stessi, ma dobbiamo cercare di amarlo e dirgli di sì. Perché solo dicendo sì a Cristo diremo sì alla vita.

Annalisa Barile

 

 

 

Sorgente: <a href="Esserci, febbraio 1995“>Santa Maria della Stella Terlizzi

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