Prima lettura: Atti 4,32-35
La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno. |
La pericope degli Atti ci presenta una comunità cristiana che si raduna attorno agli apostoli con compattezza e spirito di servizio. Si tratta di uno dei tre celebri sommari (gli altri si trovano in At 2,42-47; 5,12-16), con cui l’evangelista Luca tratteggia in modo ideale la vita della comunità apostolica. La prima grande caratteristica messa in evidenza dal brano è
il forte senso dell’unità: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune» (4,32). In effetti, si vede realizzato quello che fu l’auspicio stesso di Gesù, il quale chiese al Padre, pronunciando la «preghiera sacerdotale», che tutti siano «uno» (cf. Gv 17,11.21).
L’unità però sollecita ad avere maggiore considerazione delle eventuali sperequazioni all’interno della comunità. Coerentemente, Luca sottolinea che non vi era la presenza di «bisognosi». «Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (4,34-35).
Questo dato non deve far pensare a una forma di «comunismo» ante litteram, in quanto l’obiettivo degli apostoli e di quelli che li seguivano era già stato indicato dalla tradizione giudaica, che conosceva bene il testo di Dt 15,4: «Del resto, non vi sarà alcun bisogno in mezzo a voi; perché il Signore certo ti benedirà nel paese che il Signore tuo Dio ti da in possesso ereditario». Ciò vuol dire che la benedizione del Signore è per tutti, senza preferenze.
Ma il senso ultimo di questa forma di testimonianza nella carità è immancabilmente la potenza della risurrezione che sostiene e guida l’opera degli apostoli: «Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore» (4,33). La potenza della Pasqua, della risurrezione di Gesù Cristo, riesce a compiere persino il miracolo di rendere gli esseri umani solidali, pronti a condividere con chi, per vari motivi, non è stato toccato dalla benedizione divina, rendendosi così benedizione per il fratello. È questa forza, che si sprigiona dal Risorto, a concretizzare il segno della comunione, per cui mentalità diverse, personalità a volte contrastanti, riescono a diventare «un cuor solo e un’anima», per servire il Regno e far risplendere sulla terra la gloria del Padre attraverso le opere che compiono.
Seconda lettura: 1 Giovanni 5,1-6
Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi. Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità. |
Quella «moltitudine di coloro che erano venuti alla fede» (At 4,32), al tempo degli apostoli come in tutte le epoche della chiesa, sono da definire in modo più chiaro quali «figli di Dio». È ciò che afferma la prima lettera di Giovanni: «Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato» (5,1). Amare cioè il prossimo implica conseguentemente amare chi da Dio è stato generato perché crede che Gesù è l’unico a cui può essere attribuita la qualifica di Cristo. Si tratta, dunque, del credente, del cristiano che professa una fede che — a giudicare dall’insistenza dell’autore del testo biblico — dev’essere “ortodossa”. Infatti, quest’esigenza dell’ortodossia viene confermata successivamente quando leggiamo: «Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?» (5,4-5).
Il rapporto tra fede ortodossa e figliolanza divina appare decisamente molto stretto e, secondo una logica coerente, chi è figlio di Dio non può che amare gli altri figli di Dio. Nel linguaggio tipico della Prima lettera di Giovanni, l’amore viene identificato con l’osservanza dei comandamenti: «Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti, perché in questo consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi» (5,2-3). Riportiamo i testi per far capire che, nella loro semplicità, parlano «da soli».
In questo caso, potremmo addirittura parlare di una proposta di unità della vita cristiana: perché scindere la fede dalla carità? Perché non capire che chi crede «bene» e rettamente è in grado di amare secondo il cuore di Dio? Perché non ammettere che credere in Gesù significa essere coinvolti nella vita secondo lo Spirito, dalla forza rigenerante del Battesimo che promana dalla Pasqua?
La vittoria sul mondo, quindi, si ottiene rendendo la propria esistenza partecipe della Pasqua di Gesù Cristo, adoperando quei veri strumenti di testimonianza dello Spirito che sono i sacramenti vissuti all’interno della comunione della chiesa.
Vangelo: Giovanni 20,19-31
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. |
Esegesi
Il giorno della risurrezione di Gesù dovette essere senz’altro traumatico per i discepoli, che faticarono molto a convincersi che ciò che avevano udito dire al Maestro, ma che non avevano mai del tutto compreso, era finalmente avvenuto. Quel giorno fu anche contrassegnato dalla paura, poiché «La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!» (20,19). Il testo sembra esplicito: i discepoli, per non attirare l’attenzione, o per non essere accusati di aver trafugato il corpo di Gesù dal sepolcro, si rintanarono in un luogo, sbarrando le porte per non avere la sorpresa di vedersi raggiunti dalla polizia del Tempio. Non è ben chiaro quale fosse il luogo in cui essi si rifugiarono (una casa di Gerusalemme?), ma è sicuro che comunque ebbero la sorpresa gradita di vedere Gesù in mezzo a loro per «sciogliere» il timore che gravava nel loro animo e procurare, quindi, la gioia.
Siamo di fronte al primo elemento importante di questo brano: il saluto di pace. Esso non è, come si sarebbe forse tentati di pensare, un semplice saluto di «buonasera», perché possiede una pregnanza particolare: in primo luogo, è pronunciato in un contesto solenne quale la sera del giorno della risurrezione; indica poi uno stato di fatto che Gesù viene a instaurare tra i discepoli; infine, Gesù che dona la pace manifesta tutta la potenza di «Signore» che gli compete.
Tale saluto, reiterato dopo che i discepoli hanno constatato i segni della passione e hanno gioito nel riconoscere il Signore, viene completato dal mandato missionario: «Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (20,21).
Per chi ha un minimo di dimestichezza con il Vangelo di Giovanni, questa frase non risulta nuova, poiché tante volte Gesù aveva parlato, durante la vita pubblica, del fatto che era stato mandato dal Padre a rivelarne la volontà salvifica. Ora è il momento di associare nell’adempimento del suo compito coloro che sono stati scelti (cf. 17,18). Essi dovranno prolungare l’azione di Gesù nello spazio e nel tempo, assistiti dallo Spirito Santo. Perciò, «Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (20,22-23). Il gesto dell’alitare, molto suggestivo, suggerisce un rapporto con Gen 2,7, quando Dio «alitò» per dare la vita all’uomo (in greco Giovanni usa lo stesso verbo adoperato dalla versione dei Settanta). In un certo senso, Gesù «ricrea» i discepoli, costituendoli testimoni efficaci dell’amore di Dio in mezzo all’umanità. Infatti, costoro ricevono lo Spirito Santo insieme al preciso mandato di rimettere i peccati.
Insieme alla gioia di chi vede il Signore, il brano ci presenta anche la figura problematica di Tommaso, il cui nome significa «gemello», ma anche «doppio», «ambiguo». L’affermazione di costui è lapidaria: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (20,25). Anche Tommaso, dunque, intende essere fatto partecipe di ciò che hanno vissuto i suoi compagni. Il racconto dell’evangelista Giovanni ci riferisce che ciò si verificò otto giorni dopo. Gesù si rivolse direttamente a Tommaso, rispondendogli: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!» (20,27).
Per questo fatto, Tommaso è diventato un po’ il capofila di coloro che non sono creduloni. Ma ritengo che per tale motivo ci sia anche un po’ più simpatico: con la sua obiezione, “obbliga” Gesù a rivelare di nuovo il suo corpo di risorto che conserva i segni della passione. È senz’altro vero che sono beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno, però noi che leggiamo a due millenni di distanza queste testimonianze abbiamo bisogno di sapere che tra gli apostoli c’è stato qualcuno che ha avuto il coraggio di porre la stessa obiezione che avremmo posto noi. Tuttavia, siamo invitati dal finale del brano a credere «che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio» e ad avere la vita credendo nel suo nome, come è avvenuto a tanti che ci hanno preceduto nella fede e hanno lasciato segni concreti del loro passaggio sulla terra.
Sorgente: Sant\’Achille Molfetta