Relazione/lezione tenuta da Rocco Carsillo a Giovinazzo 25.11.2014
1 – «I concetti creano gli idoli. Solo lo stupore conosce».
Quello che colpisce in questa frase e balza subito all’attenzione è l’accostamento quasi insopportabile tra «concetto» e «idolo», tanto da farli apparire in congiunzione quasi paradossale, mentre invece bisogna riconoscerne la “connaturalità”. Esaminiamone i poli salienti.
1.1 – «Idolo» e «stupore».
a) La parola idolo, di origine greca (είδωλον), a sua volta da οίδα (vedere), da cui deriva anche la nostra “idea” che nel linguaggio usuale è sinonimo di “concetto” (= concepito): in questo contesto, non significa, sicuramente, solo e nemmeno principalmente, l’immagine consueta di una qualche divinità, anzi vedremo che nel cammino storico della parola questo senso è sopraggiunto; ma sta ad indicare una creazione della fantasia, una rappresentazione mentale che contrasta con il reale, un atto di “concepimento” mentale, se volete anche “virtuale”, un concetto, appunto. Questa deviazione, chiamiamola così, non è connaturale al termine visto in sé stesso il quale porta in se, è vero, un’idea di generazione, di un assemblaggio di dati, una sintesi di connotazioni, ma deriva dalla possibilità molto concreta che sia solo un figlio della ragione, ens rationis, direbbero i filosofi, e di esso non possiamo dire nemmeno “concepito in provetta”, ma solo per “partenogenesi”! E la ragione, quando si stacca dalla realtà, quando rifiuta il o ogni rapporto di dipendenza dalla realtà e dalla verità, può creare solo mostri, può creare tragedie, può creare guai!
Altro è invece il concetto, diciamo, sano: è sì una costruzione della mente, una rappresentazione creata dalla mente, ma una rappresentazione della realtà ad essa fedele, che dà ragione di tutti gli elementi costitutivi di essa realtà, fondendoli e assemblandoli come parti di essa, rispettandone la configurazione reale.
b) Lo stupore è una reazione intima di meraviglia provocata dall’evidenziarsi e svelarsi improvviso ed immediato della realtà come un fatto «per me», che dà risposta alle mie attese di verità di concretezza di pace di fiducia, alla profonda complessità della nostra intelligenza, in alternativa alle idee, le congetture ed i pensieri su di essa, che, alla luce del nuovo incontro, figurano solo come rappresentazioni datate, anche se fino a 5 minuti prima sembravano le cose più logiche e più ovvie: cioè “idoli”! Una pagina che ho letto molte volte il cui contenuto mi sorprende solo ora, un viso da tanto conosciuto che mi rivela solo oggi una sfumatura inattesa che mi genera un desiderio di ingaggiare addirittura con quella persona il viaggio di una vita, un oggetto quotidiano tante volte guardato ed usato di cui solo oggi mi accorgo, e mi stupisce solo per la sua presenza. Ecco cos’è lo stupore di cui parliamo.
Per chi ha familiarità con il testo del Vangelo, possiamo dire che la categoria che unisce tutti i personaggi sia in positivo che in negativo, è lo stupore: quello di chi accetta di seguire una presenza che non si sa chi sia, ma che “mi ha detto tutto quello che io sono e ho fatto”, ma anche quello di chi si rifiuta di seguirlo perché “ha guardato nel mio cuore ha visto che sono sinceramente credente e bravo, ma mi chiede troppo …” e, commenta il Vangelo, se ne va perché aveva molti beni! Si era svegliato il desiderio di verità, ma i suoi “concetti”, i suoi calcoli, i suoi “idoli”, ebbero una forza maggiore! In questa esperienza dello stupore, è la ragione che si scopre bambina e dipendente dalla realtà e dalla verità che le si presentano per accompagnarla nel suo compito di luce e guida per la vita. Solo nello stupore ogni brandello di realtà diventa un avvenimento, ed è come l’irrompere dell’imprevisto.
1.2 – Stupore ed imprevisto
Voglio proporvi la lettura e l’ascolto di una bellissima poesia del grande Eugenio Montale. Prima del viaggio Prima del viaggio si scrutano gli orari, le coincidenze, le soste, le pernottazioni e le prenotazioni (di camere con bagno o doccia, a un letto o due o addirittura un flat); si consultano le guide Hachette e quelle dei musei, si scambiano valute, si dividono franchi da escudos, rubli da copechi; prima del viaggio si informa qualche amico o parente,si controllano valigie e passaporti, si completa il corredo, si acquista un supplemento di lamette da barba, eventualmente si dà un’occhiata al testamento, pura scaramanzia perché i disastri aerei in percentuale sono nulla; prima del viaggio si è tranquilli ma si sospetta che il saggio non si muova e che il piacere di ritornare costi uno sproposito. E poi si parte e tutto è OK e tutto è per il meglio e inutile. E ora che ne sarà del mio viaggio? Troppo accuratamente l’ho studiato senza saperne nulla. Un imprevisto è la sola speranza. Ma mi dicono che è una stoltezza dirselo. (Eugenio Montale, Satura) Ma cos’è quest’imprevisto? Se si tratta di quello che non siamo ancora riusciti a inscatolare nella nostra ragione razionalisticamente matematica o strumentale, non si può sperare in esso; in poco tempo anche quell’imprevisto diventerà ovvio, scontato, calcolato. Per una ragione libera, invece, l’imprevisto è la profondità del normale finora mai esperita!
Questo «stupore» non ha nessuna relazione con quelle situazioni di “meraviglia” provocate artificiosamente con metodi manipolatori, perseguite da alcuni artatamente per guadagnare consenso o vendere meglio il proprio prodotto. Pertanto, è necessario precisare che ci si trova in un campo dove è possibile il malinteso; ed è per questo che valgono le parole di san Gregorio che stiamo commentando: le idee, i pensieri, le riflessioni che non nascono come esplorazione e ricerca di sempre maggiore e migliore conoscenza della realtà, per migliorarla per sostenerla per non perderla per svilupparla per preservarla per guarirla, ma per manipolarla e stravolgerla e renderla asservita al proprio gusto ai propri schemi e al proprio piacere, creano gli idoli, cioè immagini di fantasia, con la loro logica e le loro esigenze.
1.3 – Stupore e realtà
Ma, ci chiediamo: Stupore di cosa? Meraviglia per cosa? Quale desiderio suscita? Che inquietudine mi genera? Stupore della realtà; per la realtà: che ci sia «qualcosa» e non «niente»; del fatto che io ci sia, che ci sia tu. Ma perché il reale di cui ho ora esperienza suscita stupore, meraviglia? Perché il mio stesso esserci suscita stupore, meraviglia? Perché non c’è nessuna ragione necessitante in me per cui io debba esserci: nessuno è necessario. Dice a proposito Pascal in uno dei suoi Pensieri: «Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell’eternità che precede e che segue il piccolo spazio che occupo e che vedo inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che m’ignorano, mi spavento, e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non c’è ragione che sia qui piuttosto che là, adesso piuttosto che allora. Chi mi ci ha messo? Per comando e per opera di chi mi sono destinati questo luogo e questo tempo? Memoria hospitis unius diei praetereuntis». (Pensieri, 88[205]) Però Montale conclude amaramente la sua poesia dicendo: «mi dicono che è una stoltezza dirselo», dirsi di voler attendere l’imprevisto. Ma, è possibile spegnere questa domanda del cuore dell’uomo? È giusto censurarla? O non dobbiamo piuttosto assumerla e iniziare un cammino di ricerca per scoprirne una risposta?
«Quando miro in cielo arder le stelle; / Dico fra me pensando: / A che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito seren? che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono?».1 È l’impatto con la realtà che scatena la domanda umana e, nella misura in cui vive, nessun uomo può evitarne il porsi.
Attenzione però! Queste domande possono essere indotte e non genuine! Per cui «Niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che non si pone».2 Non si può iniziare una ricerca se non dopo che l’uomo nella sua verità e libertà ha incontrato ciò che gli ha provocato stupore e meraviglia! Per il bene e per il male scoperti! È sempre di qui che nasce la conoscenza e l’uomo scopre di essere fatto per la verità! Così cominciò il cammino di Socrate pensante e “filosofo”, cioè amante della sapienza, cioè desideroso di acquisire un «sapere per la vita», la filosofia: cominciò a porre domande sulla realtà, sul perché della realtà, sul perché dell’essere, dell’essere in un modo piuttosto che in un altro. È lui, infatti, all’origine storica del «concetto», della sua prima formulazione, che, come appare chiaro da quanto detto, è in diretta dipendenza dalla realtà! Famose ancora, a riguardo, le parole dette, e riportate poi come loro insegnamento, da Platone ed Aristotele.
– Dice Platone: «è proprio del filosofo questo che tu provi, di essere pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo». (Platone, Teeteto, 155d).
– Dice Aristotele: «Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli altri astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicchè, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica». (Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b).
– Il grido di Archimede: «Eureka!». Dopo la scoperta si dice che senza perder tempo andò in giro nudo a gridare la sua gioia!
– La reazione paziente di Galileo a tutte le angherie cui venne sottoposto: «Eppur si muove!».
– E la grande chiosa di Dante nel canto 26° dell’Inferno:«Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza».
2 – L’atto morale.
Come accade l’atto morale? Come si mette in moto il suo «meccanismo»? Quale la sua causa originante? È possibile fare una ricerca decente e degna dell’uomo, dell’origine del suo atto morale? Cosa muove ad agire? I nostri comportamenti sono guidati da conoscenze che li modificano in un senso o nell’altro, ma è chiaro che non hanno nella sola conoscenza un movente sufficiente: c’è in essi sia un aspetto decisionale della volontà, che deve essere individuato e compreso nel suo attuarsi, e c’è anche l’aspetto della desiderabilità, dell’attrattività esterna e passionale dell’oggetto di cui, alla luce di quanto detto finora, occorre analizzarne l’apporto qualificante.
2.1 – È possibile una morale fondata sulla verità?
Noi ci troviamo in mezzo ad un cumulo di macerie, culturalmente parlando, provocato dal flusso della modernità e dal riflusso della post-modernità. Ogni professionalità è autoreferenziale. Il docente, l’avvocato, il giudice, il medico, l’assistente sociale, il giornalista, il prete, il genitore, lo studente, l’operaio, il commercialista, l’artigiano, il contadino, l’uomo, la donna, ecc.: tutti dicono «devo compiere il mio lavoro!», ma mai che si mettano a confronto almeno due di questi per vedere se come interpreti tu sul campo la tua mansione può dare luce o spessore al mio modo, e se possiamo collaborare, e se possiamo insieme aiutare a scoprire il bene comune! Tutti agiscono come monadi auto-convintisi di essere esperti e competenti!
La parabola delle ideologie moderne, conclusasi meschinamente nelle notti buie del XX Secolo, ne esibisce anche una “narrazione” cruda e spietata: teorie che hanno sviluppato nel tempo tutto il loro potenziale fino alle estreme conseguenze di cui quelle “notti buie” che, preludevano solo il finale. Queste ideologie si sono incanalate e sono sopravvissute, attraverso lo scivolo postmoderno, nella riduzione nichilistica del “politicamente corretto” che rende sempre più estranee tra loro ed emarginate le persone, o nella dittatura del “pensiero debole” che per induzione si impone come «pensiero unico», o nella tragica esperienza dei vari “fondamentalismi”, o nella “riduzione” biologica e zoologica dell’uomo.
E questo è il frutto del postulato dogmatico a priori che è diventato una presunta condizione dirimente della modernità: prescindere dalla Tradizione. Alla visione di Aristotele e Tommaso, manifestatasi ancora capace di interpretare meglio e capire il nuovo facendo intuire di essere attrezzata a confrontarsi con le istanze imprevedibili dell’uomo quando, dove e come arrivino al livello della “criticità”, i moderni e postmoderni hanno opposto la “sufficienza” di chi si sente al sicuro dalla Metafisica perché vive nell’era della scienza, e, incalzato, risponde di non avere bisogno di produrre ragioni per rendere ragione di questo annullamento, perchè considera muffa ciò che evoca l’antico: non è raro incontrare persone che esprimono questo sicumerico “complesso di superiorità“, ma non riescono a dirti altro che «pure tu pensi ancora a queste cose!». Ma, così facendo, hanno provocato una terribile noia e la coscienza di una sostanziale inutilità delle riflessioni filosofiche, delle presunzioni ideologiche che si moltiplicano e si declinano, ormai, solo in dibattiti culturali politici filosofici teologici sul nulla, esibendo, narcisisticamente compiaciuti, competenza parolaia sulle varie “problematiche” dell’attualità. Così, la dialettica dell’Illuminismo, ancora pervicacemente radicata e di cui modernità e postmodernità sono autorevoli epigoni, muoverà ancora dalla palese, dolorosa constatazione – sperimentata proprio sul terreno europeo – di come «la terra interamente “illuminata” splenda all’insegna di trionfale sventura».3
Chi guiderà l’umanità in questo triste bailamme? E la “nuova società”, fiore all’occhiello della concezione “moderna” del convivere umano? Risposta: solo un cumulo di regole, fra loro proceduralmente collegate, “saggiamente” (si fa per dire!) interpretate da giudici e avvocati, “pazientemente” propinate da sociologi e psicologi «di grido», si dice, da opinionisti e opinion maker, dagli «articoli di fondo»; tutti questi si autoregoleranno, nel racconto e nell’interpretazione dei fatti, molto spesso arbitrariamente, seguendo la propria Deontologia (si dice!): sarà sempre vero? A volte appare chiaro che si tratta di altro: la voglia di scoop, la voglia di arrivare prima per vendere di più, la voglia di far pagare a qualcuno qualcosa, la voglia di ergersi a fustigatori dei costumi, la voglia di apparire rampanti, di apparire intelligenti scopritori di magagne con un fare saccente e snobista … e quando glielo si dice, la risposta liberatoria per tutto: «Il diritto alla notizia»! Però, dobbiamo tornare al fondo della questione, tornare all’origine del «nuovo indirizzo».
È possibile, anche oggi, una morale che salvi la dignità dell’uomo, che annunci il vero contenuto della libertà, che si incarni nella verità, che non risolva i conflitti e i problemi dimenticando, annullando o mistificando i dati, anche negativi, della realtà, ma guardandoli e scoprendo in essi le ragioni e i germi di razionalità? Una morale che sia valida per tutti e che non trascuri nessun aspetto dell’uomo “integrale”? Che non offenda la ragione, ma neanche la mitizzi? che non tenti di giustificare tutti e tutto prestando il proprio servizio nell’atto di offrire a ciascuno ragioni anche là dove non c’è ragione alcuna, o addirittura tutto è contro la ragione? coraggiosa, non perché proterva ed ideologica, ma perché fedele alla verità?
2.2 – Chi è l’uomo?
Il «soggetto agente» è l’uomo, e l’uomo è il soggetto agente con la sua identità, con la sua storia, con le sue povertà, quindi non possiamo fare a meno di guardarlo nella sua consistenza, il suo essere, il suo «chi è», perché per affermare della bontà o malvagità del suo agire, non possiamo prescindere dalla bontà e perfezione del suo essere.4
Aristotele non ha un’idea preconfezionata dell’uomo. Dirà che è “sìnolo“, insieme di materia e forma; ma egli ricerca e scopre “l’uomo” osservandolo come si dipana ai suoi occhi:5 è un pezzo di natura, un “fatto” con tanti connotati che lo distinguono da tanti esseri, e con tanti altri elementi che lo assimilano a diversi altri, è un pezzo di polis; l’uomo, cioè, è un essere inserito e incomprensibile fuori dal contesto; infatti, lo «straniero» non vale niente perché non se ne conosce o non ha un contesto. L’uomo ha delle perfezioni proprie riconoscibili dal suo rapporto con gli altri esseri. Aristotele descrive come è e vive l’uomo, non ne ha l’idea da cui dedurre come deve essere e vivere, non si arroga una definizione assertiva, la sua Metafisica, infatti, riguarda l’essere e non l’uomo, che certamente ne è interessato perché «essere pure lui», ma la relativa riflessione è uno strumento nelle sue mani per capire quanto grande è la sua posizione nel cosmo. L’uomo è essere con gli altri esseri, è sìnolo come gli altri, è potenza e atto come gli altri, ma ciò che lo distingue è una rilevazione “empirica”: egli pensa mentr gli altri non pensano, agisce non come agiscono gli altri, può decidere od omettere le sue azioni non come decidono gli altri, come gli altri esseri tende sempre al bene ma può preoccuparsi anche del bene degli altri, e, se necessario, in vista di un bene più grande non dissonante dal precedente. E quando lo definisce con dei concetti precisi diciamo questi sono storici, situazionali, empiricamente sperimentabili. Per es.: «l’uomo è un animale razionale!, … l’uomo è un animale politico!», cioè, l’uomo vive e sta insieme con gli altri, e, standoci, con questi costruisce e si preoccupa del suo bene e del bene degli altri; anzi, stando insieme, impara ancora di più come perseguire il bene. Il concetto di «uomo» che Aristotele propone è un concetto funzionale:6 l’uomo era definito dalla sua «situazione», dall’insieme dei ruoli che svolgeva, i rapporti istituzionali che assolveva come cittadino, cioè nella vita, cioè nello stare con gli altri, cioè nel comportamento, cioè nel suo tendere verso la sua crescita, in una parola, egli è “buono”, come è buono l’albero che produce, come è buono il suonatore che suona bene, come la macchina che va bene, nella misura in cui declina “bene” la “sua umanità”, ma è proprio questa l’esperienza morale in cui viene realizzato il proprium dell’uomo. Ma il compito proprio dell’uomo in quanto tale non è come quello delle piante con cui ha in comune la «vegetatività», né la semplice “sensitività”, o vita dei sensi, che ha in comune con gli animali, ma solo la vita della ragione. L’uomo dunque sarà felice solo se vive secondo ragione.
6 Aristotele, Etica Nicomachea, I, 7, 1097b, 25-1098a, 5. 7 S. Tommaso d’Aquino, I-II, q. 18, a.1, c.
Se l’uomo, dunque, come viene considerato come soggetto morale quando “fa l’uomo” secondo tutte le sue prerogative occorre dire che il giudizio di bontà sulla sua azione va commisurato in rapporto diretto allo specifico del suo essere; cioè a quella qualità e dimensione che fanno di “questo” essere un uomo, e ne costituiscono il proprium e la perfezione rispetto a tutti gli altri esseri, ed è la capacità intellettiva e conoscitiva;7 però, non solo il semplice considerarne narcisisticamente la presenza, il «come sono bravo!», ma anche se tale perfezione è usata rettamente e correttamente. Perciò un’azione sarà più o meno buona nella misura in cui la razionalità umana è presente, è usata, ed è usata bene. Ma la ragione è una facoltà che non può essere intesa bene senza il suo legame essenziale di dipendenza, nel suo esercizio, dalla realtà nella sua interezza. Ed in questo senso, a servizio dell’uomo reale per illuminarne le scelte e gli impegni, che essa caratterizza la moralità del suo agire proprio come capacità di acclarare: per prima cosa l’imperativo cosmico: «fa’ il bene, evita il male», ma anche di cogliere “qui ed ora”, in questa azione, in questa circostanza, in questo luogo, in questo lavoro, in questo rapporto, con questa amicizia, in questo affare, in questo processo, in questo articolo di giornale, in questa trasmissione, in questo procedimento educativo, in questo rapporto di lavoro, in questo contratto, …. insomma in tutto quello che faccio o mi vien chiesto di fare o son costretto a fare per il mio ruolo e compito assegnatomi, il bene particolare cui questo atto è orientato, e riconoscerne la conformità a quella legge cosmica «fa’ il bene, evita il male», che a sua volta è fondata sul fatto che ogni essere vive e sussiste secondo la sua perfezione, che deve esprimere, poi, nel suo vivere e agire.8
Dice S. Tommaso: «Gli atti umani si denominano buoni o cattivi in rapporto alla ragione, poiché il bene umano consiste “nell’essere conforme alla ragione”, e il male nell’essere “contrario alla ragione”. […] Perciò è evidente che la differenza tra oggetto buono e oggetto cattivo ha un rapporto essenziale con la ragione, perché si considera l’oggetto in quanto concorda o non concorda con essa».9 Da ciò segue che la regola prossima della moralità dell’agire è per l’uomo la ragione ed agire secondo ragione, “katà ton orthon logon”, «secondo retta e corretta ragione», però non una ragione freddamente consequenzialista, impersonale, teoricamente rigorosa, ma che fa i conti con la realtà umana nella sua integralità, e che ha come oggetto proprio l’orientamento dell’uomo verso il bene.
2.3 – Il «bene»
Ma se la ragione è regola della moralità dell’agire, a fondamento di ogni azione umana vi è un desiderio naturale del bene: «è impossibile che uno voglia o che faccia qualcosa senza mirare al bene; o che voglia fuggire il bene, proprio perché è bene».10 Il «voglio bene», «ti voglio bene» sono l’espressione lessicale per esprimere quel desiderio di bene, ma è anche la stessa che usiamo per esprimere l’amore, quindi l’amore è fondamentale nella considerazione degli atti umani, sì che tutto quello che si riferisce alla volontà e al desiderio si può riferire in un certo senso anche all’amore che ne è l’espressione più piena e completa. E tutte le affezioni dell’anima scaturiscono dall’amore.
Cos’è il “bene”? Risponde Aristotele: «[1094a] Si ammette generalmente che ogni tecnica praticata metodicamente, e, ugualmente, ogni azione realizzata in base a una scelta, mirino ad un bene: perciò a ragione si è affermato che il bene è “ciò cui ogni cosa tende”».11 Ma, precisa S. Tommaso nella Summa: «Il bene e l’ente si identificano nella realtà. […] La consistenza razionale del bene consiste nel fatto che una cosa è desiderabile: infatti Aristotele dice che il bene è “ciò che tutte le cose desiderano”. Ora è chiaro che una cosa è desiderabile nella misura che è perfetta, perché ogni cosa tende appunto a perfezionare se stessa. Ma in tanto una cosa è perfetta in quanto è in atto: e così è evidente che una cosa in tanto è buona in quanto è ente; l’essere infatti è l’attualità di ogni cosa».12 Dunque il bene cui tende ogni azione dell’uomo non può essere visto senza la luce della ragione né scisso dall’essere reale. Quindi il bene proprio dell’uomo cui tende in quanto uomo è la perfezione del suo essere, è tutto ciò che è perseguito in vista di tale perfezione, è tutto ciò che è riconosciuto capace di realizzare tale perfezione.
L’ordine nell’agire, dunque, «non può che derivare dalla regola della ragione che orienta al vero fine ultimo che è il sommo bene. È da questo amore di dilezione (frutto, cioè, non semplicemente dell’istinto o del sentimento, ma frutto di una elezione, cioè di una scelta consapevole della volontà), che dipende tutta la morale».13
2.4 – L’agire dell’uomo
L’agire dell’uomo, quindi, è spiegabile teleologicamente:14 viene «caratterizzato in riferimento alla gerarchia dei beni che costituiscono i fini dell’agire umano […], e i fatti che concernono l’azione umana comprendono i fatti che concernono ciò che ha valore per gli esseri umani».15 E siccome ogni attività, ogni prassi tende verso qualche bene, il suo agire tende al bene. Ma il bene verso cui si tende è in vista del perfezionamento dell’essere, nel caso dell’uomo, in vista della perfezione dell’uomo. Quindi i beni particolari che costituiscono l’oggetto immediato del “qui ed ora” nella finalità di questa azione particolare, non può essere scisso da questa tensione naturale, non può essere in conflitto con il bene in quanto tale, cioè con il raggiungimento della perfezione dell’uomo. Da questo e solo da questo si deduce che l’agire dell’uomo è un agire “etico” perché la sua è attività secondo la ragione, o perlomeno non senza ragione, che orienta e accompagna la scelta. «La ragione aristotelica è resa pratica dal fatto che essa percepisce la desiderabilità di certi beni umani, il loro valore e la loro idoneità a costruire, come fini da perseguirsi nella prassi, gli ingredienti della vita buona; conseguentemente la ragione può regolare saggiamente la loro realizzazione nelle azioni concrete e contingenti».16
Ma il bene particolare, l’oggetto della scelta qui ed ora viene determinato da una deliberazione, «la scelta, infatti, è accompagnata da ragione, cioè da pensiero»,17 per questo «la scelta è intelletto che desidera o desiderio che ragiona, e tale principio è l’uomo».18
«Questo è il primo precetto di quella legge, bisogna fare e realizzare il bene, e bisogna evitare il male».19 I giudizi morali di tante persone, penso soprattutto a quelle più semplici, non saranno, forse, ordinati esplicitamente secondo criteri logici, ciononostante saranno moralmente stringenti e validi, perché di fatto sono una attualizzazione ed incarnazione di quel principio primo: fa’ il bene, evita il male; e «tale legge naturale non può essere cancellata in nessun modo dal cuore dell’uomo nel suo aspetto di principio universale; può esserlo invece in azioni particolari, per il fatto che la ragione può essere impedita di applicare il principio universale al caso particolare per la concupiscenza o per qualche altra passione».20 Si tratta, dunque, di un principio che è alla base di tutta la vita, di tutto l’agire umano; non una disposizione accanto alle altre, ma la disposizione a cui tutte le altre devono essere riferibili per essere umane e per l’uomo.
3 – Etica e virtù
È chiaro che la persona umana nasce, come tutti gli esseri che hanno questo tipo di fenomeno o evento per esserci, allo stato “grezzo”. Ma … la pianta viene potata perché porti frutti, faccia il suo mestiere, l’animale impara il comportamento da animale stando inizialmente nel “branco”: il cane, il gatto, il leone, il topo, … imparano la vita e il vivere da cani, da gatti, … nel loro «ethos»,21 anche se oggi sempre più spesso ne sono strappati perché vivano in ambiente «umano».
E l’uomo? Come impara “il mestiere di uomo”? Nell’ethos, è nel luogo della vita concreta che apprende e costruisce il carattere personale maturato in esso e nella fedeltà ad esso. Dice Ritter: «L’ambito etico comprende dunque gli usi, i costumi, le consuetudini, le forme di comportamento giusto e conveniente nel senso della virtù, ma anche le istituzioni che sorreggono queste forme di comportamento, come la casa, il culto degli dèi, i sodalizi di amici, le comunità di guerra, di festa, di sepoltura. Il «giusto», che determina l’agire come «etico», è quindi ricavato concretamente dal mondo istituzionale della vita «abituale» e delle connesse forme tradizionali del parlare e dell’agire, senza dover ricorrere a valori e norme a sé stanti. Il «giusto» riguarda l’ethos e il nomos della polis, la consuetudine della casa».22 Quindi l‘agire etico è proprio dell’uomo “contestualizzato” a) in un ethos in cui ha appreso la vita e le regole per viverla bene al fine di realizzare il proprio bene ed il bene di tutto l’ethos; o b) secondo un ethos che è il suo carattere23 acquisito e formato in “quel” luogo. L’agire etico, allora, è l’agire secondo l’Etica che possiamo definire, anche se più spesso viene confusa con la Morale, così: è l’insieme di principi vissuti, perché condivisi, rispettati e maturati nella conoscenza e nella vita, fondati su una comune concezione dell’uomo, da cui poi conseguono norme fissate per regolare la vita di una comunità, per guidare la formazione degli uomini e il raggiungimento del loro bene personale e comune. Da chi impara la verità e il contenuto secondo quella espressione napoletana lapidaria: “fa’ l’omme!”? L’uomo, allora, nell’ethos costruisce una umanità che viene modellata secondo l’ethos stesso. È l’educazione alle virtù.
La parola “virtù” traduce il termine greco areté che significa “eccellenza” o “bontà” riconosciuta ad un certo oggetto; ed in questo senso Aristotele applica il termine ad oggetti di ogni tipo, dagli argomenti agli artefatti, fino all’uomo. E se areté esprime “eccellenza” e “bontà”, si può dire, allora, che l’idea di virtù ha a che fare con quella di “forma”,24 perché essa ha un significato se si accetta che ci sono delle caratteristiche essenziali, e quindi esigite proprio dal realizzarsi concreto di quelle realtà,25 che tipi di oggetti hanno e manifestano in misura maggiore o minore: parlare, allora, di particolari “virtù”, come la temperanza o il coraggio ha senso se si assume che ci siano delle caratteristiche essenziali dell’essere umano, qualità che ogni essere umano deve possedere in una certa misura se vuole condurre una vita soddisfacente, e che indicano “umanità in atto”. Inoltre, per “virtù” si intende una “eccellenza”, un tratto profondo e durevole di una persona, acquisito e implicante una caratteristica motivazione a realizzare un fine desiderabile. Il fatto che sia una qualità acquisita è una condizione necessaria perché si possa parlare della virtù come di qualcosa di cui si è responsabili, e proprio per questo postula la nozione di merito perché le virtù sono qualità che procurano lode per la loro presenza e biasimo per la loro assenza; non sono mere abilità tecniche, ma, come qualità acquisite, fanno parte dell’identità e del carattere di una persona.
La gran parte del dibattito etico moderno è polarizzato su “regole di utilità”, “regole delle azioni moralmente corrette”, “regole di giustizia”, ma si dimentica che il punto essenziale della vita morale dev’essere non a “quali regole uno dovrebbe obbedire per agire bene”, ma “quale tipo di persona uno vuol essere” per poterlo realizzare con “eccellenza”. È il ricentrare l’attenzione sulle virtù comporta anche un mutamento nel modo di concepire la stessa Filosofia Morale. Infatti, se scopo della morale non è “produrre certi stati di cose”, come la massimizzazione utilitaristica, o “formulare l’obbligazione del dovere morale” nella prospettiva deontologica, ma la “realizzazione della persona” secondo la razionalità etica, allora non si può concentrare l’impegno in vista della massimizzazione di “quegli stati”, ma piuttosto in vista delle scelte di vita in un certo modo piuttosto che in un altro, e in vista del telos. La domanda etica cruciale, allora, che è da porsi sarà: “Che tipo di persona è bene che sia?”: per cui l’interesse etico fondamentale è rivolto al tipo di persona che si intende realizzare, alle forme di eccellenza o di virtù attraverso le quali si raggiungono, con scelte e deliberazioni pratiche, i fini umani e si realizzano le potenzialità specificamente umane, solo in questa luce si potrà porre e comprendere adeguatamente la domanda circa le azioni da compiere. Se è così, appare chiaro che l’impostazione dell’etica “moderna” di fatto contiene al proprio interno germi di contraddizione.
Se in nome del dovere si rimane fermi alla contrapposizione fra l’agire per il dovere e l’agire per le inclinazioni, l’agire per il dovere o solo per il dovere non è sempre la disposizione morale più appropriata (nelle circostanze comuni il soccorso all’amico portato per dovere non sarebbe considerato indice di una personalità buona!), mentre il “linguaggio delle virtù” supera questa difficoltà, in quanto la circostanza offre l’occasione per il realizzarsi e manifestarsi di un agire più perfetto. Dobbiamo rilevare una ulteriore contraddizione: il “proceduralismo” dell’ e nell’etica pubblica. Per i proceduralisti la società non deve privilegiare nessun “tipo” di etica, ma al suo interno devono essere fissati e stabiliti principi impersonali o regole puramente procedurali e formali le quali sole, si dice, consentiranno di evitare o risolvere i conflitti. Il “proceduralismo”, sappiamo, si propone di organizzare solo un complesso di regole a partire da una razionalità logica autoreferenziale, e queste costituiscono il “diritto” inteso come insieme complessivo di regole. Nello stesso linguaggio giuridico, infatti, il termine “procedura” è usato secondo questo significato: “procedura penale”, “procedura civile”, mera tecnica di verifica o di applicazione, secondo un metodo proceduralistico di regole, e lo stesso “stato di diritto” è visto come regime di vita sociale fondato sulle regole e da esse interpretato e guidato. Dobbiamo, infine, evidenziare che l’”etica delle virtù” polarizza la sua attenzione sulla “moralità della persona” e non degli atti o delle norme “consequenziali” dai principi fondamentali, come dovrebbe accadere per l’impostazione dei “consequenzialisti”, che sottolineano la “moralità” tout court intesa solo come espressione della razionalità pura.
Va da sé che tutte queste teorie prevedano una sostanziale indifferenza verso la moralità personale, giudicata come ambito “privato”, e che contribuiscano al crearsi di una frattura fra quelle regole e le motivazioni morali della persona, a cui, però, garantiscono, con motivazioni puramente prudenziali, o legate a sanzioni, la libertà di poterle sostenere. E così le virtù escono dalla «casa» sostanziale dell’etica per approdare in quella della «teoria» e della deontologia tendenzialmente relativistica.
È facile vedere in queste forme di teorizzazione etica solo l’espressione concettuale e la giustificazione di esigenze poste da taluni aspetti della società moderna per la cui vita è teorizzata la necessità di stabilire regole procedurali e formali o princípi etici impersonali per una società di estranei. Il prodotto finale della presa sociale di queste stesse è un generale impoverimento del tessuto morale della società, con conseguenze negative anche sulle esigenze di una vita pubblica realmente improntata alla “tolleranza”, di cui non raramente ci si chiede, senza ottenerne ragionevole risposta, «in nome di che?»:
– se in nome del rispetto dei diritti di cittadinanza, questi «fondati su che?»;
– se in nome della giustizia nei rapporti interpersonali, ma «a partire da che?»;
– se in nome di una generosa attenzione verso le persone svantaggiate, ma «in nome di che, oltre la pietà, nonostante Rawls?».
In ultima analisi, possiamo dire che ciò che è assente in queste teorie è la persona, la prospettiva del soggetto agente; sono ignorati il contesto in cui opera la razionalità pratica, la concretezza delle relazioni interpersonali, il ruolo appropriato dei sentimenti e degli affetti. Con la dovuta conclusione che quando si considera la moralità solo a partire dalla “legislazione” la motivazione diviene irrilevante perché il tutto prescinde dalla persona in quanto tale. Possiamo distinguere un:
– Agire tecnico (àpòiesis), o produttivo, è quello proprio dell’artigiano: esso è guidato dall’idea (àeidos) o modello dell’oggetto da produrre e trova la sua perfezione nell’abilità (àtechne) operativa posseduta. L’azione in questo contesto è solo il mezzo necessario al raggiungimento del fine, ma non è il fine stesso; in questo caso infatti il fine è il prodotto, diverso dall’azione, il quale prodotto comincia ad esistere solo al termine dell’azione.
– Agire pratico (àpraxis) ha, invece, il fine immanente all’azione; è, cioè, rappresentato dall’azione stessa che viene compiuta; anch’essa è guidata da un’idea (àil bene, àagire bene, àvivere bene), che però è intrinseca all’azione stessa e può realizzarsi tramite una disposizione interiore (la phrònesis), una virtù del carattere, capacità di scelta e decisione prudente e consapevole. L’azione, cioè, viene compiuta per se stessa, per la sua intrinseca bontà e come momento del realizzarsi della vita buona; e il suo compiersi rappresenta il raggiungimento del fine.
però i giudizi emessi guidati dalla phrònesis possono essere errati, ma ciò che rende oggettivamente valida la praxis è l’agire preoccupati del bene e del meglio.
In una società modellata sulla pòiesis, l’agire è finalizzato al raggiungimento di risultati, cioè che sia efficiente ed efficace, e spesso il suo ideale è raggiungere il successo: e le persone rischiano di diventare inconsapevoli strumenti o utili idioti per il raggiungimento di risultati caratterizzati secondo l’ideale dell’efficacia e dell’efficienza, ma esterni alla loro vita, e così anche per gli stessi soggetti sociali, quando vengono ridotti ad oggetti di manipolazione.
Al contrario, in una società modellata sulla praxis, centrale non è la modificazione di stati di cose, ma l’orientamento dell’agire: il soggetto agente non è posto davanti ad un mondo di oggetti, ma al proprio agire, di cui è responsabile. L’agire dell’uomo è, dunque, spiegabile
– teleologicamente:26 deve, cioè, essere compreso ed interpretato in riferimento al bene e al meglio che si prefigge di raggiungere e realizzare perchè è sempre «caratterizzato in riferimento alla gerarchia dei beni che costituiscono i fini dell’agire umano»; ma anche
– intenzionalmente,27 perchè «i fatti che concernono l’azione umana comprendono i fatti che concernono ciò che ha valore per gli esseri umani».28
3.1 – Agire intenzionale e deliberato.
Che cosa determina l’uomo ad agire? Se egli perseguendo, comunque, il bene, può scegliere la strada e i mezzi per raggiungerlo, e decide di intraprenderla, qual è il criterio che lo guida e deve guidarlo nelle scelte e nelle decisioni? C’è un desiderio da realizzare, un’idea da attuare, un’emozione da vivere, un utile da raggiungere, uno stile ed un ruolo da interpretare coerentemente, una correttezza da evidenziare, una moda diffusa da seguire, o un bene da scoprire conoscere riconoscere e raggiungere e realizzare? Il modo di dire quotidiano, per una volta, ci può illuminare in questo.
Quando si dice: «Voglio un bene vero!», oppure: «Mi vuoi veramente bene?», fa capire che nel sentire comune è presente la convinzione che ci può essere un «bene non-vero», cioè qualcosa che viene visto come bene ma non risponde al giudizio di verità, o che si rivolta contro l’uomo. Dunque allora: il bene, per essere tale, deve essere vero, cioè deve essere corrispondente alla realtà; e agire veramente bene deve apportare un contributo vero alla realtà, così come deve essere un reale contributo alla crescita della persona che agisce. Potrà anche essere utile, dilettevole, di moda, degno di lode ed onore, … il raggiungerlo, ma la ragione per cui viene deciso è perché è vero. Ora, se lo specifico dell’uomo è la funzione razionale tesa alla verità, o, meglio, al possesso della verità, capiamo che il riconoscimento del “vero” bene è opera della funzione teoretica e veritativa della facoltà intellettuale, anche se la tensione ad esso è opera del desiderio-scelta-decisione. È importante sottolineare questa tesi aristotelica: la verità è un aspetto essenziale del sapere che deve illuminare e permeare l’agire.
E questo tipo di sapere Aristotele lo chiama phrònesis. Essa non è una episteme,29 ma è un sapere che contiene in sé un elemento di partecipazione personale, di desiderio buono, è conoscenza di una verità pronta ad essere incarnata nella vita, anzi è una verità che si evidenzia non nelle cose ma che è “le cose vissute” mutevoli fallaci e limitate: tutte queste cose rendono la phrònesis un sapere, ma diverso dalla scienza pura. Per descrivere e definire la verità pratica, che orienta l’uomo nell’agire, Aristotele completa la sua riflessione stabilendo cosa significa “verità“, o meglio “correttezza” in relazione al desiderio: essa deve dire ciò che è bene e ciò che è male perchè possa illuminare la scelta e la deliberazione, cioè determinare l’azione morale; ma, anche nel caso del desiderio, dev’esserci una forma di corrispondenza all’oggetto come verità. Sì che, analogamente al sapere scientifico per cui la verità è affermare o negare conformemente allo stato delle cose, così nel desiderio la verità è tendere al bene vero e fuggire il bene apparente.
3.2 – Moralità e coscienza morale.
Ma, chiediamoci: Può un’azione diventare cattiva? Se il fine è il bene e nell’agire si tende al fine, come si può giungere ad agire contro il fine, cioè contro il bene? C’entra l’intenzione? la mistificazione? il fraintendimento? l’ideologia? la falsa coscienza? Ancora: come può un’intenzione buona o cattiva cambiare la natura di un’azione rispettivamente indifferente, cattiva, buona?
Che significa agire in coscienza? Che tipo di obbligazione deriva dall’”agire in coscienza“? Dov’è l’errore: nel fraintendere il bene col male, o nel decidere di fare il male? O in tutti e due i casi? Che significa coscienza in errore e coscienza errata?
Sopra ho parlato della necessità, per l’azione umana, del discernimento del “vero bene”: il bene che corrisponde, che risponde alla vera esigenza dell’uomo.
Mi piace ricordare quel che succede per la pubblicità di un prodotto; per es., l’uomo ha bisogno naturale di acqua per dissetarsi, ma come invogliarlo a desiderare una birra che mentre lo disseterebbe farebbe guadagnare anche a “noi” commercianti? Al posto della birra/dissetarsi, tutto sommato ancora innocente, mettiamo qualunque altra cosa (dalla droga all’associazione a delinquere per ottenere … un posto di lavoro o denaro facile!) che la propaganda fa apparire come il bene che ci vorrebbe per essere veramente felici. E qui la questione si complica: non solo il bene proposto è un falso bene, ma anche l’azione di chi propone è un’azione cattiva perché propone ciò che non è bene.
La dimensione intenzionale dell’agire umano in vista del bene è un’ulteriore espressione della sua organicità necessaria con la consapevolezza e la responsabilità esigite e manifestate in esso, per la cui presenza, e in base alla misura di quella presenza, è possibile attribuire e riconoscere la paternità di un’azione. S. Tommaso usò due termini che già la tradizione a lui precedente aveva coniato per la circostanza: conscientia e synderesis. 30
Innanzitutto: synderesis e conscientia per loro natura sono “altro” rispetto alle facoltà dell’intelletto e della volontà, che si definiscono «potenze dell’anima», l’una intellettiva, l’altra appetitiva. La synderesis è la configurazione naturale della ragione pratica che ha come architravi i primi principi del retto agire, e da S. Tommaso viene definita come «habitus che contiene i precetti della legge naturale, che sono i primi principi delle azioni umane».31, mentre la conscientia è l’atto con cui questi principi vengono applicati ai casi singoli. Ora, se il bene è ciò verso cui ogni azione tende, e il male ciò da cui ogni azione si allontana, e tutto questo è “stampato” nella synderesis, e pertanto, secondo S. Tommaso, infallibile,32 è solo nella conscientia il “luogo” in cui può nascere l’errore perché essa coniuga i primi principi indelebili alla circostanza contingente. La coscienza, infatti, serve a formulare un giudizio pratico in merito all’azione deliberata, e, dato che il giudizio è sempre un atto di conoscenza, esso è soggetto ad errori perché potrebbe trattarsi di conoscenza errata, pigra, non dimostrata, tradita, senza convinzione, ed anche … vera. La sinderesi, inoltre, viene presentata come l’elemento presente in ogni uomo e che tende ad impedire all’uomo di errare volontariamente:33 colui che erra non erra rispetto ai principi del retto agire, ma solo quando si tratta dei beni particolari, che possono essere apparenti e non autentici.
S. Tommaso mette ancora in relazione, chiarendone il rapporto, volontà e coscienza, e definendo la volontà come «applicatio scientiae ad aliquem actum», (àapplicazione della conoscenza ad un’azione particolare), riproducendo il confronto tra la sfera intellettuale e quella pratica. «Scientia autem in ratione est», (àla conoscenza è nella ragione), precisa Tommaso, e dunque la volontà vuole ciò che l’intelletto, ovvero la “coscienza”, le mostra come buono, ed avversa quel che l’intelletto giudica essere un male. Il problema nasce nel momento in cui la coscienza sbaglia, e pone un giudizio falso.34 Ma anche in questo caso la volontà deve seguire la coscienza: «Unde dicendum est simpliciter quod omnis voluntas discordans a ratione, sive recta sive errante, semper est mala»,35 (àsi deve dire semplicemente che ogni volontà che devia dalla ragione sia corretta sia in errore, cioè dalla “coscienza” in errore, è sempre cattiva). È interessante qui il riferimento di S. Tommaso al VII Libro dell’Etica Nicomachea di Aristotele, che riguarda la figura dell’incontinente:36 «per se loquendo incontinens est qui non sequitur rationem rectam: per accidens autem, qui non sequitur etiam rationem falsam», (àpropriamente parlando l’incontinente è colui che non segue la retta coscienza: per accidens anche chi non segue la coscienza falsa). S. Tommaso afferma, dunque, che la «conscientia erronea excusat», perchè il giudizio della coscienza è un atto intellettuale, e l’errore può dipendere da ignoranza. Ma potrebbe trattarsi di un’ignoranza volontaria caratterizzata da una certa negligenza, oppure involontaria, che Tommaso chiama «ignorantia alicuius circumstantiae absque omni negligentia»:37 ci sono cose che ogni uomo è tenuto a sapere, ed altre che è impossibile conoscere, come certe circostanze particolari. Ora, l’ignoranza volontaria, genera una coscienza erronea che non scusa la volontà che la segue; l’ignoranza involontaria genera anch’essa una coscienza erronea, però in questo caso la volontà che la segue è giustificabile.
Da quanto detto appare chiaro che la vita è umana nella misura in cui l’uomo è presente a se stesso, è, cioè, guidato nell’agire dalla consapevolezza e dalla coscienza, e, con l’acquisizione delle virtù, persegue il raggiungimento del telos in vista della costruzione di una vita veramente felice.
Ciò che fa della synderesis e della conscientia, quando quest’ultima non è in errore, espressione dei principi della retta ragione, secondo Tommaso, è che esse sono costitutive di quella forma di vita umana che, sola, è rivolta al nostro ultimus finis. E nella persona virtuosa, la cui prudentia l’ha guidata verso quel fine, abbiamo sia una giustificazione della nostra identificazione del contenuto dei precetti della synderesis, sia un’autorità sul modo in cui discernerli. Esso concerne il grado in cui la nostra coscienza di precetti anche fondamentali può essere sovvertita dalle distrazioni e corruzioni del male, cosicché l’immoralità di un’intera classe di azioni può cessare di esserci evidente. Perciò, secondo Tommaso, vi sono proibizioni assolute e incondizionate che un’intera cultura può trasgredire senza rendersene conto. Così, se l’infanticidio o l’uccisione dei genitori in qualche cultura sono autorizzati, questa per [alcuni] è una prova evidente del fatto che in alcune circostanze è lecito o anche obbligatorio uccidere coloro che sono molto giovani o molto vecchi. […] Tommaso e certamente l’intera cultura di Tommaso, asserisce che era possibile un ampio errore morale.38 In sintesi:
1. Synderesis: la presenza indelebile nell’animo umano dei principi morali fondamentali e immediatamente derivati: fare il bene ed evitare il male; non uccidere.
2. Conscientia: consapevolezza presenziale “qui ed ora” di un bene giudicato tale e che «voglio» perseguire, o di un male giudicato tale e che «voglio» evitare: essa può venire a mancare, colpevolmente o incolpevolmente, nel momento in cui si agisce.
3. Coscienza in errore. Coscienza in errore è quella accidentalmente deviata dal suo intrinseco percorso verso la verità.
4. Falsa coscienza. Una coscienza non diretta ad illuminare la realtà, ma a oscurarla, manipolarla o ad ideologizzarla.
Concludendo. La vita è umana nella misura in cui l’uomo è presente a se stesso, è guidato nell’agire dalla consapevolezza e dalla coscienza, e, con l’acquisizione delle virtù dell’intelletto e del carattere, persegue il raggiungimento del telos in vista della costruzione di una vita veramente felice.
3.3 – «Falsa coscienza».
I problemi morali della persona che scopre il conflitto tra quello che gli viene chiesto di fare dalla norma, o attraverso la norma, e la coscienza, non si esauriscono riconoscendo la legittimità dell’obiezione di coscienza. Voglio richiamare quanto già sopra detto: la coscienza può di fatto, in alcune circostanze, trovarsi nel falso, cioè trovarsi deviata, per fattori contingenti, dal compito di perseguire la verità e la ricerca nel nome della verità. E in questo caso, come insegna S. Tommaso, bisogna sempre esserle fedeli. Mi piace riportare qui il famoso aneddoto del card. John Henry Newman, di cui si è molto parlato negli ultimi mesi in occasione della sua Beatificazione in Inghilterra. Diceva: «Certamente se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo – cosa che non è molto indicato fare – allora io brinderei per il Papa. Ma prima per la coscienza e poi per il Papa»,39 e questo perchè pensava che la coscienza, nella quale credeva profondamente, “luogo” di incontro con la verità, lo avrebbe portato sempre a ricercarla e ad accettarla ogni volta che l’avesse scoperta ed incontrata.
Con la modernità, e in particolare con la filosofia dei “maestri del sospetto”, ha fatto ingresso nel gergo culturale una nuova formula che ha inteso mettere in crisi «la coscienza» cartesiana, fonte e radice delle certezze assolute:40 la «falsa coscienza». Una formula, diciamo, originale, per dare una certa dignità e lustro ad un contenuto ipotizzato molto negativo e messo in mostra nel tentativo di offrire un contributo “razionale” alla socializzazione e convivenza sociale e politica.
Dacchè mondo è mondo, imbrogliare il prossimo, o la comunità, è stato giudicato sempre come un gesto cattivo, e quindi sempre da condannare; qualcuno,41 invece, cominciò ad azzardare: e se fosse espressione di una intelligenza molto sveglia, che cerca di interpretare e prevenire il pericolo analogo dell’antagonista? Tanto: homo homini lupus, cioè se non attacchi e vinci, sei attaccato e vinto!
Ora, la centralizzazione sempre più marcata della “formula” in chiave morale, politica, sociale, economica, psicologica, ha, invece, ingenerato più problemi, di quanti ne abbia risolti, alla convivenza, che sta diventando sempre più sospettosa ed eticamente equivoca. E la “falsa coscienza”, proprio per questo, paradossalmente, viene ormai vista come la cifra per una corretta “interpretazione della modernità”. Non è difficile ascoltare frasi come questa, e non per strada o nei bar, ma anche nelle scuole di cultura superiore, come Licei o Università: «La cultura non trasmette verità, ma dubbi!», oppure: «Solo i cretini sono certi!»; tutte cose che, per carità, in alcuni casi sono vere, ma, per fortuna, non tutto e non sempre è così!
A differenza della coscienza che, desiderosa di verità, può però essere tratta in inganno da contingenze, diciamo, “esterne” ad essa, può, invece, accadere che sia la coscienza stessa a trovarsi impegnata per deviarsi e deviare dal perseguimento della verità: per qualsiasi motivo, dal più buono al più cattivo,42 e ugualmente impegnata a trovare e divulgare le “ragioni” che ne giustifichino il progetto cercando di “oscurare la realtà”. È la «falsa coscienza». E, se è così, qui ci troviamo a dover documentare, tra l’altro, anche la stretta vicinanza concettuale tra «falsa coscienza» e «ideologia»,43 la quale, appunto, si esprime in linguaggio, teorie e ragionamenti coerenti al “progetto” di falsificare o mistificare,44 per offrire una dignità e legittimità, diversamente irraggiungibili, agli argomenti: e si dovrà anche qui parlare di «razionalizzazione».45 È un trinomio procedurale perfetto: falsa coscienza – razionalizzazione – ideologia!
Ora, l’ideologia è strumento formidabile per la falsa coscienza “in azione” che cerca di conquistare e falsificare anche le altre coscienze, che mai si piegherebbero alla menzogna, attraverso l’opera suadente della razionalizzazione inoculando il sospetto, e il “linguaggio usato”46 e “scelto” lo è perché ritenuto strumento quanto mai efficace per la realizzazione dell’opera: è lì ad offrire il sostegno dell’accessibilità e comunicazione universale delle teorie ideologiche.
Alla luce di quanto detto, possiamo comprendere meglio, perciò, la realtà dell’Emotivismo, dal filosofo MacIntyre riconosciuto e giudicato come un “contenitore” in cui confluiscono tutte le linee culturalmente portanti della società contemporanea. L’Emotivismo, e gli emotivisti, afferma, infatti, che tutta l’Etica, nei giudizi “morali”,è falsa coscienza in azione: è una manipolazione, dicono, sempre in atto. Ancora di più: tutta la vita è interpretata individualisticamente ed egoisticamente, ed ognuno cerca di prevaricare sull’altro. Compito della morale per costoro? Educare a stare correttamente sul “palcoscenico” della società!47
Sarà possibile “smascherarla” la falsa coscienza? anche perché, ciò che appare evidente nei “dibattiti”, è che ciascuno dei parlanti, in tenace conflitto fra loro, non si stancano di indicarla e denunciarla presente nei propri antagonisti, per cui ognuno, che è del mestiere, cerca di smascherare le motivazioni inconfessate che si nascondono dietro le “maschere” moraleggianti degli altri, cosa che diventa l’attività più tipicamente praticata, più divertente e più coinvolgente negli scontri tra i “militanti” nelle varie e reciproche tifoserie. La politica, che oggi si manifesta sempre più come «gioco politico», in cui si gareggia a chi è più scaltro nel riuscire a spiattellare in pubblico i privati limiti dell’avversario, è diventata oggi azione di mascheramento/smascheramento scaltro per non pagarne il prezzo.
Freud, però, avvertì anche, il rischio di boomerang, perchè «smascherare l’arbitrarietà nel comportamento degli altri può sempre essere una difesa contro la messa a nudo di quella che portiamo in noi stessi!».48
E il «bene comune»? E l’agire sempre in vista del bene di ognuno e di tutti? Certo, è vero, che il momento delle sanzioni morali e di legge potrebbe giungere troppo tardi, quando il male è già fatto, ma la società non può essere costruita bene senza la prospettiva del bene, e del vero bene! Non si costruisce in vista dell’inganno da evitare o da preventivare come parafulmine contro l’eventuale inganno certamente previsto! Giovinazzo 23.11.2014. Rocco Carsillo P.S.
Chi volesse contattarmi per esprimermi pareri e critiche, o confrontarsi più articolatamente con me sul contenuto di quanto detto e scritto, può usare anche questo indirizzo: rocco.carsillo@uniba.it
Sorgente: Concattedrale Giovinazzo